| “Siiiro” (“Zero”) grida un mezzo ciccione dietro di me, immediatamente sostenuto da altri quattro o cinque. Il palco è vuoto, le luci ancora spente, due fari blu indagano sulle cotenne sudate delle prime file: dopo poco meno di due ore gli Smashing Pumpkins hanno fatto tappa dietro le quinte per la consueta pausa prima del bis (ma chiamiamolo “encore”, che è concettualmente più corretto). Quando tornano, prima i gregari come al solito, ultimo Billy Corgan, c’è Mike Byrne, il giovane samurai, alle prese con una tastiera. Dà vita all’introduzione di “For Martha”, per l’occasione più lieve di quanto appaia sul finire di “Adore”: Mike ha perso un po’ di chili, si è tagliato i capelli e, soprattutto, ha guadagnato fiducia e carattere. Passa il tempo che serve per portare a casa ventuno pezzi senza risparmiarsi, esplodendo senza ritegno sui pezzi classici e dimostrando personalità, tecnica e potenza quando la band mette in scena alcuni brani di “Oceania” (nei negozi a marzo). Il giovane ex gira-hamburger di McDonalds è cresciuto assieme al gruppo e dire che questi non sono gli Smashing Pumpkins è tanto vero quanto inutile. Questi non sono “quegli” Smashing Pumpkins, sono un altro gruppo, ormai cresciuto attorno alla quercia-con-pancetta Corgan e sono anche una splendida versione della band.
“For Martha” si conclude dopo un epico assalto frontale di chitarre: Jeff Schroeder suona al fianco di Corgan da ormai cinque anni, dice che quella che era nata come una collaborazione puramente professionale si è evoluta in un’amicizia reale, quel che è certo è che “The Shredder” (come amano chiamarlo le tartarughe ninja) è il compagno perfetto alla sinistra del leader degli Smashing Pumpkins. Non solo fa legna, come si suol dire, ma si lascia spesso e volentieri ammaliare dalla sacra arte dell’assolo, dal muro sonoro, dall’accompagnamento delizioso.
Intanto, l’addetto al tornio dietro di me, continua a gridare “Siiiiro!”. Quando penso che lo show sia arrivato alla sua degnissima conclusione, vengo smentito da un trittico che pare una concessione forzata: prima “Tonight, Tonight”, quindi, eccola, “Zero”, infine “Bullet with Butterfly Wings”.
Dopo essersi tirato i capelli con la stampa statunitense per il voluminoso tour dei vent’anni (2008), considerato da qualcuno troppo avaro in quanto a grandi classici (e di minchiate grosse se ne sono sentite sui live degli Smashing Pumpkins, ma come quella…), Corgan ha deciso che era tempo di smetterla di metterla sul “confrontational”. Di fare quel che va alla band, ma di pensare anche a quelli che arrivano e considerano “Muzzle” un pezzo semisconosciuto. Quindi “Zero” e “Bullet with Butterfly Wings” per chiudere nella norma, un concerto poco normale. Intorno saltano, sono finito per scelta nella zona in cui ci si fa male, ma di sentire un’altra volta il primo singolo di “Mellon Collie & the Infinite Sadness” non ho tutta questa voglia, me la faccio scivolare addosso con solo qualche spallata ben assestata.
D’altronde, quando hai avuto due ore e quindici (circa) costellate da “Geeks U.S.A.”, da “Frail & Bedazzled”, da “Siva”, da “Silverfuck”, un’altra “Bullet” puoi giustamente considerarla come facile manovalanza. Che è poi tutto quello che non è stato il concerto: suonato a un volume ormai raro, spinto da una potenza e sorretto da una coesione da pelle d’oca, questi Smashing Pumpkins mettono indiscutibilmente a tacere chiunque potesse ritenerli una qualche forma di cover band d’eccezione. Rispetto al tour di “Zeitgeist” c’è un’energia differente e la sensazione che abbiano tutto da dimostrare come, in effetti, è. Tanto che i nuovi pezzi sono delle monumentali insalate di riff e assoli, in cui per ora (ma è anche comprensibile) ritrovarsi è difficile. Detto questo, “Pale Horse” è già bella che metà ne basta e l’attacco di “Quasar” giustifica tutte le tirate di Corgan sui vecchi pedali dell’era “Siamese Dream” che ha regalato nei mesi scorsi.
Una scaletta semplicemente strepitosa (a mia memoria la migliore che mi sia capitata di godere dal vivo assieme al concerto parigino del 2007, e forse pure meglio in quanto a ritmo) trova anche lo spazio per “Thru the Eyes of Ruby”, per “Starla”, per “Window Paine”. Da “Teargarden by Kelydiscope”, oltre ai momenti di “Oceania”, si fa viva la sola “Lightining Strikes”, che è poi il brano più compiuto e più “da band” dei dieci finora proposti, quindi tutto ha un senso. Anche se “The Fellowship” e “Song for a Son” mi avrebbero scaldato ulteriormente il cuore.
Nei negozi tornano “Siamese Dream” e “Gish”, i primi passi del gruppo. Che ora ha un nuovo e promettente futuro davanti e un ricco e agiato passato alle spalle. “Oh what a beautiful night”.
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